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Monumenti di eroi, ruderi vetusti di civiltà morte, di glorie passate, che il Divino sole sempre vi baci co’ suoi raggi d’oro e la sua fiamma vi bruci, che la polvere della terra in balia de’ venti vi investa, e l'acque piovane vi anneriscano sempre più; la verde flora selvatica allacci le vostre logore membra, tutte le forze della natura lentamente vi rodano o con terribile schianto vi atterrino; ma vi salvino i numi dall’aria chiusa de’ musei, necropoli dove sulle sparse vestigia vostre verminano i conservatori; vi salvino dai restauratori, dai rifacitori, le mani inette della piccola turba che non crea, giammai vi tocchino.
Perchè la impotente vanità papale eresse contrafforti a sostegno del colosseo illustre, se non seppe creare la nuova gloria di Roma?
Perchè sulle trionfali colonne clamanti al cielo le gesta degli Eroi eresse i suoi Santi, se non valse ad arrestare l’orde dei barbari? Ma troppo son lontane le glorie di Roma e le memorie grandi. La nebbia grigia della mediocrità incombe gelidamente sulla presente vita; piccoli uomini, idee minime, poveri fatti, s’agitano tra i sepolcri degli Eroi.
Quando dal cuore d’Italia, dopo secoli di barbarie, s’affermò con Dante la novella rinascenza e in uno slancio sublime di vita dalle memorie Elleniche e di Roma, umanisti, poeti, uomini d’arme, artisti instaurarono un nuovo panesimo; uomini e gesta straordinarie fecero di Firenze l’Atene Italica, l’arte assurse alle più perfette forme di Bellezza.
Non pe’ Musei, ma per la vita crearono gli artisti, non per la sterile imitazione, ma per ardente emulazione ammirarono l’opere antiche.
Le masse imponenti, le linee armoniose de' palazzi delle logge, dei templi ricchi di fregi, di simboli e figurazioni, le cupole maestose e solenni come canti di trionfo, le torri ben costrutte erette al cielo nel sole come aspirazioni inesauste alla luce, all'alto, tutto celebrava e magnificava la vita.
Nuove generazioni di barbari scesero a mietere ne’ campi delle nostre glorie e bevvero alle fonti della nostra vita. Non più tese per suoni o per anni vibrarono le corde negli archi, un sonno di tre secoli intorpidì l'anima di una razza tre volte grande, e quando un'alba di vita scosse i tìgli dormienti, precocemente atrofizzati, con sterile rimpianto brancolarono avidi fra le memorie de’ padri.
Cittadini di Firenze, le vostre gallerie sono piene di memorie e d'opere tolte alla vita: ivi avete sepolti il S. Giorgio di Donatello e il David di Michelangiolo ; da anni su i castelli di legno con aspra pomice variamente cercate al vostro bel San Giovanni l’anima del passato. Le vostre nuove piazze e le statue sono ibride come di barbari, continuamente con marmi sciupati profanate il nobile tempio di S. Croce; le nuove vetrate di S. Trinità e di S. Maria Novella non cantano, ma stridono alla gloria delle luce.
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Le fronti di S. Croce e di S. Maria del Fiore nella gretta e pesante imitazione hanno il freddo delle cose morte, e le nuove porte di non aureo bronzo a vergogna vostra affacciano la loro triste miseria, di fronte all’ aurea forza e alla gloria di Andrea Pisano e di Lorenzo Ghiberti.
Fiorentini, non le guardate; a scherno vostro altri le guardano; ora più vi commuove il fatto e vi irrita la tema che nuovi tumulti di Ciompi allontanino dalla vostra terra la presenza e l’oro dei barbari, che altre e più grandi porte di bronzo s'alzino a chiudere il vostro massimo tempio in faccia all’auree porte del Paradiso.
Chiuderanno queste, per le quali certo non occorse mezzo secolo di studio, la tomba della vostra vita?
Se ora tale dubbio vi s’affacciasse forse dall’anima decrepita sapreste ancora trarre tanta forza per gridare il No imperioso e solenne che l’ultimo Vate Italico gridò ai Veneziani a Lui rivoltisi, come gli antichi agli oracoli, dopo la caduta della torre di S. Marco.
O serenissima, quando il gigante millenario, che vide le navi opime e risonanti d’armi e di trionfi, cadde scrosciante a piedi del ben quadrato palazzo, ora muto, ove ressero i dominatori di Levante, il tuo popolo pianse come quando il pugno di Bonaparte schiacciò in capo all’ultimo Doge il corno Ducale.
Vecchio popolo a cui non restano che gli occhi per piangere e le mani per stendere, vecchio popolo di marinai, di mercanti, di artisti, il fuoco sacro che agitò il genio de’ tuoi padri ora è spento, l’Adriatico mare che ti diede la vita lentamente ti interra, la terra t’allaccia co’ suoi ponti, non altro ti resta che trafficare le tue glorie.
All’arte Divina già innalzasti templi di pietra, di bronzo e d’oro; ora apri mercati di finta pietra e di falso bronzo. Un vecchio palazzo patrizio accoglie in funebre museo e schiaccia colla sua mole le opere povere e scialbe che non furono create ad altro scopo di vita c quelle di barbari irritanti come le femmine rosse e false del Riso di Maliavine.
Contro il volere dei fati, in onta al No del Vate, rialza pure la torre caduta, ma se alla sua vetta più non sventolerà il Vessillo dominatore di S. Marco; alla sua base nella dura pietra, sarà impressa l’epigrafe della città morta.
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